Il concerto del leader degli Who. Dall'opera rock ai grandi successi della band. Da We're not gonna take it a Behind Blue Eyes.
Non è cosa da tutti i giorni avere davanti a sé una leggenda vivente del rock come Roger Daltrey, voce inconfondibile degli Who.
Ieri, domenica 11 marzo, il pubblico multigenerazionale accorso anche da fuori Genova al Teatro Carlo Felice per assistere alla data locale della sua tournée italiana ne ha avuto la lieta ed emozionata possibilità.
Nel foyer, mods della prima ed ultima ora, insospettabili metallari, signore imbellettate e rockettes: tanti generi accomunati tra loro dal desiderio di godere dal vivo di una performance che, in base alle premesse, si annunciava esaltante e che tale si è dimostrata.
In due ore e mezza di spettacolo, Mr. Daltrey si è dato completamente, sfoderando fino all'estremo l'ugola che lo ha reso famoso: inizialmente un po' ingolfato, si è via via sciolto, fino a giocare con tonalità nere, nerissime, da pieno Delta del Mississippi.
Il fisico non è quello dei tempi d'oro, è più che ovvio, e i lunghi riccioli biondi che lo contraddistinguevano hanno lasciato il posto ad una chioma grigia più discreta, però le sue movenze sono riconoscibilissime e, manco a dirlo, gli piace ancora far roteare il microfono. I hope I die before I get old, cantava, più di cinquant'anni fa: senza tema di smentita, mi pare che il ragazzo sia ancora in piena forma.
La prima parte del concerto è stata interamente dedicata alla riproposizione dell'album Tommy, punto epico di non ritorno della storia della musica rock.
Inutile dire che si è trattato di una cavalcata sonora da pelle d'oca: le qualità vocali di Daltrey e l'indubbia bravura dei suoi musicisti hanno saputo riproporre il fascino di un disco che stupisce ancora oggi per inventiva e soluzioni musicali. Christmas, Sensation, Sally Simpson, Fiddle About, 21, Sparks: la scaletta di uno degli album più venduti di sempre (ad oggi, ben quaranta milioni di copie) è stata pienamente rispettata, arrangiamenti originali compresi.
Acid Queen, Pinball Wizard e Go to the Mirror hanno letteralmente acceso il teatro: il pubblico si è riversato dai loggioni fin nelle prime file, conquistando ogni interstizio in prossimità del palco. È superfluo affermare che le poltrone imbottite del Carlo Felice ben poco si prestano ad uno spettacolo del genere.
Daltrey non si è risparmiato: ha distrutto un tamburello, suonato la chitarra e l'armonica a bocca e, tra le altre cose, si è esibito in una spaccata degna di James Brown, mentre in platea un suo sosia, gilet di pelle e ricci compresi, ha ballato ininterrottamente per tutta la durata della performance, gridandogli «I love you!» ogni volta che gli era possibile.
We're not gonna take it per chiudere la prima tranche di spettacolo: forse il pubblico, esaltato com'era, felice, si sarebbe perfino accontentato.
Come una briscola di danari, invece, è calata sulla platea la sequenza del repertorio misto degli Who: I can see for Miles, giusto per rinfocolare gli animi, The Kids are Alright, un assaggino (troppo breve, in verità, quasi per segnare presenza) in chiave blues di My Generation, e poi Baba O'Riley e Who Are You?, per accontentare davvero tutti, fan di C.S.I. compresi.
Unica nota dolente, dopo un inizio davvero emozionante di Behind Blue Eyes, Daltrey si è interrotto per sturarsi le orecchie con un asciugamano. Un inconveniente tecnico, certo, meglio correre ai ripari, prima di cannare completamente il brano, ma la magia si è incrinata proprio su una delle ballate rock più belle che siano mai state composte. Eh, lo so, non si può aver tutto.
Tra un brano di Simon Townshend, che sostituisce il celebre fratello Pete alla chitarra (sarebbe stato bello avere anche lui sul palco, per vedergli alzare il calice al dio del rock, come solo lui sapeva fare) ed alcuni pezzi del Daltrey solista, poco rock e molto pop, sensibilmente distanti dal repertorio della sua band d'origine, il finale è scivolato sulle note di Blue, Red and Grey, un brano che, per stessa ammissione del cantante, gli Who hanno eseguito pochissimo dal vivo, forse perché, come svelato da Daltrey, Pete non riusciva a far roteare come si deve il braccio sull'ukulele, strumento di dimensioni troppo ridotte per consentirgli di eseguire i suoi noti virtuosismi.
E poi, via, Roger si è dileguato dietro i tendaggi, portandosi appresso una bottiglietta d'acqua e una tazza di ceramica buona per le tisane, da buon sessantottenne qual è.
Genova. Roger Daltrey con 'Tommy': una leggenda del rock al Carlo Felice
mentelocale.it on Roger Daltrey in Genova, Sun, 11. Mar 2012